Contributo di don Elia Ferro, direttore Ufficio diocesano di Pastorale dei Migranti (Migrantes) al Report 2018 “Persone, non numeri” realizzato dall’Osservatorio Caritas delle povertà e delle risorse.
Il peso delle radici e della situazione
Sappiamo bene che ogni persona è coinvolta in situazioni su cui personalmente ha poca presa. La mancata o difficile integrazione può essere attribuita a una mancanza di volontà o a egoismo nazionale o di gruppo da parte del nuovo arrivato o del paese ospitante. Ma, guardando più da vicino, si capiscono meglio l’origine e i condizionamenti di certe situazioni. Su un adolescente nato in emigrazione e sui suoi genitori, pesa molto la posizione socioculturale che vive e che condiziona il suo comportamento sia generale che religioso. È questo il punto di partenza di qualsiasi azione educativa, pedagogica e pastorale. Ogni religiosità è incarnata, in particolare per chi vive in un contesto di mobilità come i migranti e i loro figli. Un momento storico a cavallo tra una religiosità famigliare, rurale spesso, tradizionale, popolare e la religiosità del paese di accoglienza certamente meno tradizionale e popolare. Sono impregnati di un passato tanto più importante quanto sottovalutato e devono fare i conti con cultura, tradizione, fede, relazioni non in continuità con il proprio patrimonio. La ricerca in questo senso offrirà utili spunti di riflessione e input di azione da diffondere. Nel turbinio della quotidianità che porta a semplificare troppo, fino a negare le specificità, dobbiamo ricominciare ad apprezzare la complessità.
Ci vuole tanto tempo per diventare grandi!
Anche nel campo dell’integrazione la ricerca sarà di grande aiuto sia in campo educativo, culturale, sociale e religioso. Famiglie “ferite” e adolescenti in fragilità presenti nel mondo delle immigrazioni devono fare i conti con la fretta. Ma c’è un tempo fisiologico da rispettare, ci sono delle tappe da non bruciare e idee da far maturare senza violentarle. Non sono certamente più filippini, romeni, africani come i loro genitori o i loro nonni e nemmeno come gli italiani d’Italia. Sono l’uno e l’altro insieme, tutti. Ci ricordano che la vita è più complessa di una carta d’identità; che il linguaggio e molto di più di una lingua; che il grande viaggio, dopo molti chilometri di strada, non è finito e che i sogni ci mettono tempo per diventare realtà; che il futuro è sempre da costruire e che il difficile mestiere del vivere si tesse tra ricordo del passato e speranza nel futuro. La socializzazione delle nuove generazioni e dei loro genitori non è solo una novità puntuale ma un innesto che richiede tempo e spinge in avanti. Per questo, la seconda generazione è uno specchio, una metafora, una provocazione per noi tutti, per la scuola, per la chiesa, per la società. Ascoltarli e capirli è non solo interessante ma anche istruttivo per… rimanere giovani! È aprire una porta e accorgersi della complessità e della novità del protagonismo.
La laboriosità del “meticciamento”
La ricerca invita a riflettere sull’emergenza e la prima sistemazione ma anche sulla seconda o terza fase che domanda inserimento e partecipazione sociale ed ecclesiale ma con l’originalità propria. E se il tempo attuale si diverte a mettere insieme quello che la geografia e la storia avevano diviso e tenuto separato sia culturalmente che religiosamente, oggi viviamo in contatto, in frizione e in confronto. Non solo la multiculturalità è un dato di fatto ma anche una realtà in movimento. Dimenticarlo può far correre il rischio di passare accanto al gigantesco meticciamento/metissage del mondo che sta realizzandosi sotto i nostri occhi, ed è operato anche grazie alle piccole storie dei migranti. La fretta fa trascurare il tempo fisiologico dell’innesto di popolazioni in paesi diversi da quello di origine: c’è chi confonde lingua e linguaggio e dà per risolto un inserimento che sta ancora lavorando sottotraccia; c’è chi salta le tappe di un cammino e brucia parole e idee; c’è chi non vede le generazioni ponte che vivono ancora tra due mondi; c’è chi sottovaluta le fragilità delle persone e dei contesti di origine. Un vero servizio alla persona è oltrepassare l’urgenza e l’emergenza e farsi carico di una socializzazione da capire, accompagnare ed educare. Importante è individuare la strada giusta, la compagnia giusta, l’orizzonte giusto: questo ci dice la ricerca.
Intervento di don Elia Ferro durante la presentazione del Report.