La Giornata Mondiale del Rifugiato (20 giugno) è l’appuntamento annuale per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione di circa 80 milioni di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati nel mondo che, costretti a fuggire da guerre e persecuzioni, lasciano i propri affetti, la propria casa e tutto ciò che un tempo era la loro vita, per cercare salvezza altrove.
È la Convenzione di Ginevra del 1951 a darne una definizione, a tracciare le forme di protezione legale, assistenza e diritti sociali, che il rifugiato dovrebbe ricevere dagli Stati aderenti alla Convenzione. All’articolo 1 si legge che il rifugiato è colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”. Uno dei principi essenziali della Convenzione di Ginevra è il principio di non respingimento (“non refoulement”): chi chiede protezione non può essere in nessun caso respinto verso luoghi dove la sua libertà e la sua vita sarebbero minacciati.
La Costituzione italiana, all’articolo 10, così si esprime sul diritto di asilo: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
L’Europa
Nell’Unione Europea sono attualmente accolti 3,6 milioni di rifugiati, di cui 1 milione in Germania e mezzo milione in Francia. Sono invece i Paesi in via di sviluppo ad avere l’85% dei rifugiati: la Turchia è il Paese che ne ospita il maggior numero (3,6 milioni), seguita da Colombia (1,8 milioni), Pakistan (1,4 milioni), Uganda (1,4 milioni).
L’incidenza sulla popolazione europea è dello 0,7%; in Italia è ancor più bassa, lo 0,4%. Bastano queste cifre per capire che gli Stati europei sono più impegnati a limitare gli ingressi che a proteggere le persone costrette a fuggire o ad agire sulle cause che le obbligano alla fuga. L’Europa è più interessata a rafforzare le politiche delle porte chiuse, più che a mostrare segni di impegno con la ridistribuzione dei migranti e la revisione del “sistema Dublino”, due snodi importanti per la gestione del fenomeno, ma che ancora rimangono lettera morta. Nonostante il “Nuovo patto su asilo e migrazioni”, presentato nel settembre dello scorso anno, che raccomanda una gestione più umana, solidale e coerente con il diritti umani nei confronti dei richiedenti asilo e dei migranti, continuano le stragi nel Mediterraneo, diventato il cimitero più grande d’Europa.
Eppure, per evitare i viaggi della morte lungo la rotta mediterranea e balcanica, già nel 2015 sono stati indicati i “corridoi umanitari” nei paesi di transito, vale a dire la concessione di visti umanitari per raggiungere regolarmente e in sicurezza l’Europa.
La Libia
Rimane il nodo della Libia, il principale paese di transito per i migranti dell’Africa subsahariana, che vi arrivano per superare il tratto di mare che li divide dall’Europa.
La Libia non è né un porto sicuro, né un paese sicuro, non avendo sottoscritto la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, né tantomeno la Dichiarazione di Ginevra sui rifugiati. Eppure alla Libia l’Europa si riferisce per contenere i flussi migratori, e l’Italia si è presa l’onere di firmare con la Libia un trattato di amicizia che comprende finanziamenti e fornitura di mezzi per limitare le partenze via mare. Solo che così facendo si chiudono gli occhi sui respingimenti verso il deserto, dove la morte è sicura, e sulle reclusioni nelle carceri libiche, dove non solo i diritti umani ma anche l’umana decenza viene calpestata.
Gianromano Gnesotto