La strage dei migranti

Nel buio di domenica 26 febbraio, alle quattro del mattino, in mezzo al mare freddo con onde alte tre metri, sono morti uomini, donne e tanti bambini davanti alle coste calabresi. Erano partiti dalla Turchia con un barcone, una “carretta del mare” come ci siamo abituati a dire da trent’anni a questa parte, che si è sfasciata tra le onde. Erano afghani, pachistani, siriani, iraniani, somali, palestinesi. Un’umanità in fuga dalla miseria, dalla guerra e da tanti diritti negati. Su quel barcone c’era la nostra umanità.

È per questo che la prima reazione è di tristezza, dolore, sgomento, cordoglio. Perché sono persone, mentre i numeri ci interessano solo per conoscere la dimensione del dramma. Il mare che restituisce corpi, li restituisce alla nostra pietà, perché non è più il tempo dell’indifferenza, tantomeno dell’ipocrisia e del cinismo.

Assieme alla pietà c’è la preghiera, per chi crede in un Dio che è Padre di tutti. In questo inizio di Quaresima, tempo di preghiera e digiuno, la prima risposta di Dio è un urlo nelle orecchie: “Questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo. Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora” (Is 58,6-7). Mai come in questo dramma avvenuto nella prima domenica di Quaresima, 26 febbraio, la risposta di Dio è una scrollata per essere concreti nel nostro senso di umanità.

Poi c’è la consapevolezza che siamo di fronte all’ennesima tragedia del Mediterraneo. Negli ultimi trent’anni i migranti morti nelle acque territoriali italiane sono stati quasi 26.000, a partire dal 3 ottobre 2013, quando vicino all’isola di Lampedusa i morti accertati erano stati 368.

Vien da dire che forse è più sbrigativo pensare al mare infido e profondo, che nella storia ne ha uccisi tanti. Più facile parlare di vecchi barconi, che si sfasciano prima di arrivare a destinazione. Più immediato inveire contro “scafisti” delinquenti e senza scrupoli, che organizzano viaggi pericolosi e che non ci pensano su due volte a scaraventare la gente in mare. Più ingenuo e malevolo chiedere di non partire.

Invece altro ci si aspetta dalle politiche italiane ed europee, mentre l’unica vera operazione di soccorso, la Mare nostrum lodevolmente lanciata dal governo italiano nel 2014 al seguito della tragedia di Lampedusa, è stata sostituita da iniziative sempre più deboli e centrate sul controllo delle frontiere, se non nei respingimenti.

Per questo si fa appello alle istituzioni nazionali e sovranazionali. Da più parti viene chiesta un’operazione ampia, strutturata di ricerca e soccorso in mare che metta in salvo vite umane; l’attivazione di canali umanitari dalle principali aree di crisi; l’apertura stabile e proporzionata di vie di ingresso legali.

In una nota il Card. Matteo Zuppi, Presidente della Cei, ha scritto che “non possiamo ripetere parole che abbiamo sprecato in eventi tragici simili a questo. Occorrono scelte politiche, nazionali ed europee, con una determinazione nuova e con la consapevolezza che non farle permette il ripetersi di situazioni analoghe”.

E i vescovi incaricati per le migrazioni hanno chiesto “un impegno europeo per un’operazione Mare nostrum, che metta strettamente in collaborazione le istituzioni europee, i Paesi europei e la società civile europea rappresentata dalle ONG”.

Le migrazioni non si possono fermare. Si possono invece governare. Ed il diritto internazionale e la nostra Costituzione indicano l’unica strada percorribile: accoglienza, protezione e tutela dei diritti umani. A partire dal diritto alla vita, al diritto di emigrare, e al diritto della protezione internazionale.

Gianromano Gnesotto
Direttore Migrantes Diocesana